GIOVANNI
Seduto per terra sul marciapiede di fronte a casa sua, la schiena poggiata sul basso muretto alle sue spalle, sopra il cui bordo teneva le braccia spalancate, mi aspettava Giovanni, quando, raramente, andavo a trovarlo nella sua Cupello (CH). Era sempre stato un uomo libero.
Del teatro non conservo quasi nulla di tangibile. Il mio "archivista" è il cuore. E questo "conserva" soprattutto le persone. Per esempio, appunto, Giovanni D'Alberto.
Per molti anni aveva insegnato nella Scuola Elementare, nel Bellunese. Verso la fine della carriera aveva cominciato a scrivere in versi. Raccontava. Nei testi che che vi propongo narra alcuni momenti dell'invasione italiana della Grecia (Giovanni conosceva, insieme ad altre lingue, il greco moderno e svolgeva dunque le funzioni dell'interprete):
- Scendevamo
dall'Albania alla Grecia. Ad una tappa,
uno sparò a una cicogna
bellissima:ali tese e ascelle rosse.
Non la colpì. Ma era ignoranza, strabica. -
- Per la strada un papàs, nero, barbuto,
con una tuba nera senza falda
in testa; ed un bastone
inutile... - - Chi era? - - Un prete di là.
Con una mano fece cenno al cielo;
con l'altra, dal bastone, a delle case.
Voleva dirci che era di malaugurio
per la gente del posto
far morir le cicogne. -
Morirono le persone. Questi sono brani del racconto della fucilazione di alcuni partigiani greci da parte di soldati italiani, ovvero di come "rubammo il cielo":
Il 7 aprile del '43,
a Larissa, Tessaglia,
dove una bianca strada è più posata
e leggermente avvalla,
tre camion dell'esercito
scaricano, dopo noi militari,
quattordici civili
da passare per le armi.
(....) sei schiene rovinano
come le altre. Una è un volto
girato, cruento, scritto
nella notte improvvisa.
Scritto dal sole è un alberello in fiore.
Fucilieri s'intruppano, contusi
dall'esperienza atroce, in giubbe intatte.
Tolto un posto di blocco,
delle viandanti corrono ai massacri.
Bocche e dita tremanti
leggono. Braccia gridano
all'aperta Tessaglia. Chiusa a noi
da centini e teloni: tre caverne;
e il cielo refurtiva.
Eravamo andati lì per "spezzare le reni", vi trovammo umanità e cultura:
Nel carcere di Làrissa, Tessaglia,
il santo di Elassona era seduto;
e fuori nevicava.
(....) L'uomo, un vistoso ciondolo sul petto
- una Madonna in trono
il capo chino entro un serto di stelle -
era accusato di "aver benedetto
le armi dei partigiani dell'Olimpo".
- Armi non vidi. A giovani parlai.
Dissi di savi della Grecia antica.
Pitagora citai:
"Fate che la grave pietra del sonno
non cali sopra i vostri occhi e li chiuda
se prima non vi fate 3 domande:
- Oggi che cosa ho fatto?
- Che ho fatto, e non avrei dovuto fare?
- O non ho fatto, e avrei dovuto fare? "
Giovanni aveva una visione poetica dei luoghi e delle cose: la bassa pedana del nostro teatro era per lui "una riva dalla quale la poesia scivola a piccole onde fino allo spettatore". Ed aveva una percezione quasi "fisica" delle parole e dei loro suoni (memore, credo, delle origini della poesia che era racconto, danza e canto insieme ):
" (....) i fiori, ta luludia;
e le pietre preziose: ta petradia;
chrisaficà, i gioielli;
mallià, malìa, i capelli;
perle, margaritaria;
collane: peridèrea.
Quante a, in Grecia,
a Larissa, Tessaglia."
Dei suoi piccoli alunni scrisse:
" Io li istruivo, essi mi educavano ".
Vale un intero trattato di pedagogia.
Sandro Cianci
( I brani citati sono tratti da: "Anno scolastico a Mur di Cadola. 1967-68. Conseguenze ", Nuovi Sentieri Editore, 1990 ).